La Casa Del Giovane Lavoratore in questa serie di articoli è paragonata ad una nave
trainata dal nostro fondatore san Luigi Orione verso una rotta … che non sempre sappiamo,
prevediamo, conosciamo. Ogni mese raccontiamo una storia “romanticizzata” per
descrivere l’atmosfera all’interno “di questa nave” … Una sera come tante altre ci si è
ritrovati intorno ad un dolce portato da un ospite con una bottiglia di Rum da condividere …
Prende la parola il “veterano della casa” e racconta … “Quando io sono arrivato la casa del
giovane non era così !! Allora sì che era bello!! Non c’erano né telecamere né campanelli,
C’era Gigetto …” “E chi era Gigetto ?” “Gigetto era il fantasma della casa del giovane … Era
un vecchietto ultra ottantenne che girava con passo felpato per la casa … Era ovunque
andavi e lui sapeva tutto … Aveva una cultura strepitosa !! Di ogni parola sapeva la
etimologia, da cosa derivava … Il latino era la sua fissazione ma sapeva tutto di storia e
geografia …” “E che cosa ci faceva alla CDGL ?” “Non l’ho mai capito … Lui ha detto che ha
promesso a Don Orione di donargli tutto il suo tempo così ogni giorno per tutto l’anno era
con noi alla casa.” “Ma cosa faceva tutto il giorno ?” “Niente … Lui era presente ! Entravi e
ti salutava, uscivi e ti sorrideva, quando eri nel salone ti passava accanto, ti chiedeva come
stavi e ti stava ad ascoltare … Era un po’ come il nostro papà in trasferta, il nostro nonno.
Ma poi … Poi è arrivato il nuovo direttore … Ha incominciato a togliere la vecchia scrivania,
per mettere un bancone da reception, il vocabolario di latino, l’enciclopedia e la bibbia
sostituendolo con due computer, la cabina telefonica, con un citofono ed una telecamera,
l’altoparlante con cui si intonava il rosario, con una bacheca con un regolamento appeso …
E così dopo trent’anni di onorato servizio si è ritirato con umiltà e sobrietà nel reparto del
Piccolo Cottolengo. … Ma noi i veterani della CDGL non l’abbiamo mai dimenticato, lo
andavamo a trovare e lui era felicissimo e quando andavamo via ci ripeteva la solita frase
che ci ha sempre detto ogni volta “Sempre Avanti !” … Intanto il dolce è finito e così anche
la bottiglia …“Ragazzi si è fatto tardi … Domani riprende la giornata. Un ultimo bicchiere e
in branda !!”
Chissà quale è la rotta della Nave “Casa Del Giovane Lavoratore” … Chissà dove Don Orione
ci porterà … Una cosa è sicura … “Sempre Avanti !!”
© Marco 2019
Moraldo, trent’anni, veneziano. Bloccato su una sedia a rotelle.
Quando è arrivato, tre mesi fa, ci ha raccontato del terribile incidente che l’ha ridotto così e della sua attesa per l’amputazione, ormai inevitabile, della gamba destra. Ha commosso tutti quanti della casa con la sua voglia di vivere e la sua forza nell’affrontare le avversità. Quando l’ascensore si è guastato, per due giorni abbiamo fatto a gara per portarlo a braccia su al terzo piano, nella sua stanza. Poi, una settimana fa, ha annunciato che alla fine del mese uscirà dalla struttura. Ha parcheggiato la carrozzella nel seminterrato dicendo che stava meglio, riusciva a camminare e non sentiva più dolore. Il miglioramento è stato così repentino da convincerlo a mettere in vendita la carrozzella per 1400 €. Questa mattina gli parlo a porte chiuse per dieci minuti: c’è un arretrato di due mensilità che va saldato. Il vederlo in piedi, che cammina speditamente su e giù per la stanza, invece di rallegrarmi m’irrita e al tempo stesso mi lascia alquanto perplesso. Moraldo uscendo dall’ufficio lascia la porta aperta dietro di se. Entra Tonino che con un grande sorriso esclama: “ In questa casa avvengono miracoli!”. Lo guardo basito. Lui continua: “ Vedo gente in carrozzella che si alza e cammina…”. Poi con un sorriso ironico solleva il braccio sinistro handicappato, la mano paralizzata appoggiata sul fianco: “ Direttore, non potete fare nu’ piccolo miracolo anche per me?”. Scoppio in una risata e ringrazio il Buon Dio per aver portato Tonino in questa casa!
© Craig Bell 2020
Il bastimento della Casa del Giovane Lavoratore procede il suo tragitto con la barra ferma sulla rotta del servizio all’ospitalità senza richieste di garanzie … “Chiunque ha una necessità abitativa può richiedere di entrare nel viaggio … Ormai la tecnologia ha sostituito l’uomo e attraverso i sistemi GPS, le telecamere, i badge a prossimità … tutto è sotto controllo. Sono le 23:30 suona l’allarme incendio … Il comandante ha subito l’avviso … ma è lontano dalla nave … cosa può fare … Chiama Francesco che abita lì vicino, … salta giù dal letto con le chiavi di emergenza prende coscienza che è … solo una bistecca molto cotta … Accede al protocollo e la nave continua il suo viaggio. Il nuovo sistema gestionale amministrativo segnala che gli approvvigionamenti stanno finendo e che le riserve economiche inspiegabilmente non sono sufficienti … Ecco che Luigi è già di posta al cancello alle 6:30 del mattino a fermare tutti gli ospiti che … non si sono ricordati di pagare … Lavoro davvero ingrato, perché ti senti odiato e preso in giro dalle solite “scuse ricorrenti” … Ma Luigi è inflessibile … “Capisco … quindi tra due giorni lascia la casa !!” … e come per incanto la retta viene pagata. Anche per questo mese … gli approvvigionamenti sono salvi. Ma ecco un nuovo allarme un ospite presenta eruzioni cutanee anomale sulla pelle … Gabriele prontamente chiama il 118 e accompagna l’ospite in ospedale mentre Luigi appronta tempestivamente la camera di emergenza e dà disposizione al personale addetto di ripulire con cura la stanza, disinfettare il tutto e prepararsi per il protocollo di “quarantena”. E’ quasi mezzanotte e Gabriele è ancora con l’ospite impaurito e tremante … tiene la mano di Gabriele e sa che non lo lascerà fino a che non ritornerà “Alla Casa …” … Le giornate trascorrono quasi monotone, … le solite lamentele accorate perché nel bastimento fa freddo, i soliti litigi da redimere perché tra gli ospiti c’è chi si lava e chi no … Ma Luigi è sempre lì fermo, risoluto, cordiale a garantire che niente sia difforme dal regolamento … con professionalità e attenzione alle singole persone. La nave procede, ma nella notte un gommone abborda il bastimento: quattro persone salgono a bordo indebitamente: suona l’allarme, a questo punto il capitano chiama la guardia costiera e si precipita sul luogo dell’abbordaggio contemporaneamente alla forza pubblica. Trova Gabriele già sul pezzo … Gli ospiti amanti della notte accortosi del pericolo hanno subito chiamato Gabriele … Loro sanno che lui non guarda l’ora … e che è sempre pronto ad intervenire. Il capitano coglie l’intruso nella camera di uno dei suoi ospiti. “Perché?” “Non sapevo, ma è la prima volta, ma che male c’è …” “Domani lasci la struttura in giornata!” Ci guardiamo lieti che tutto sia andato a finire bene. La PS riparte. Il capitano torna a casa, mentre Gabriele si ferma con gli ospiti per un bicchiere di Gin. La nave continua il suo viaggio con tutti i sistemi di controllo remoto in azione. Il capitano è tranquillo e sereno … “tutto è sotto controllo …”. Ma cosa sarebbe la nave senza Francesco Gabriele e Luigi ?
© Marco 2019
Fredo, 44 anni, dalla Barona“Nel cielo terso splende una grandissima luna. Mi manca il respiro, apro la finestra, l’aria è pungente. Salgo in piedi sulla scrivania, faccio un passo in avanti e sono sul cornicione. Guardo di sotto, da qui mi pare altissimo, mi appoggio alla cornice. Ho il cuore in gola, scolarmi la bottiglia di Jack Daniel forse non è stata una grande idea. Sento qualcuno che urla, una voce rauca e disperata. Trattengo il respiro per capire chi sia e da dove provenga. La voce è sparita. Respiro di nuovo e la voce riprende. Sono io che sto urlando. Sotto di me Craig: «Fredo ti prego, scendi dalla finestra che è pericoloso». Accanto a lui una trentina di persone. Vedo là in basso le tute arancioni dei soccorritori, il cancello è aperto e fermo sul passo carraio c’è il camion dei vigili del fuoco. Parcheggiati sulla strada in doppia fila un’ambulanza, due volanti della polizia e un’auto medica. Non ce la faccio più, non ce la faccio più. Sto urlando, pazzo di dolore. Urlo e guardo la luna. I pompieri appoggiano le scale alla parete dell’edificio. Ringhio: «Fermi se no...», e faccio un passo in avanti, sbilanciandomi per un attimo nel vuoto. Tutti si bloccano, pare Matrix. La testa mi gira e mi manca l’aria, sono venuti a prendermi e qui fuori non mi sento al sicuro. Meglio rientrare in stanza e chiudere le tapparelle. Qualcuno cerca di forzare la serratura. Grazie al cielo ho lasciato la chiave nella toppa. Sposto i mobili contro la porta, e mi rannicchio in un angolo della stanza, facevo sempre così da bambino quando avevo paura. Spengo la luce e rimango al buio, finalmente al sicuro. Il cuore impazzito mi sbatte nelle tempie, Venite a prendermi, se ci riuscite. Sono pronto a tutto. Sono pronto a morire. L’alcol e le medicine m’inceppano i pensieri e le parole. Come in un film d’azione la porta salta, le schegge di vetro rimbalzano dappertutto, a rallentatore. Le luci delle torce mi accecano, di botto mi sono addosso, cinque uomini mi afferrano e m’immobilizzano. Vedo i volti concitati e le bocche che vomitano parole, ma non sento le loro voci. Serro gli occhi. Un sussurro mi riporta nella stanza. Apro le palpebre e mi ritrovo davanti il volto di una bellissima donna, i capelli biondi e gli occhi chiari che mi sorridono, sembra la fata turchina nella sua tuta gialla e blu: «Fredo, mi senti Fredo? Come stai?». Spossato e svuotato di ogni energia, tra le braccia di questi energumeni finalmente mi posso lasciar andare. «Dottoressa, sto bene, ora che c’è lei sto bene». Sono in ambulanza. Buon Dio ti prego, fai che vada tutto a posto. Fai che quando tutto questo dolore e questa rabbia svaniranno che ci sia ancora un posto per me in questa casa. Vi chiedo scusa a tutti quanti. Anche a quelli di voi che un po’ ci speravano che mi buttassi. Non volevo fare del male a nessuno, ma vi prego, non cacciatemi via. Non ho più nessuno dove andare e voi siete tutto quello che mi resta, siete la mia famiglia. Perdonatemi se ci riuscite. Vi voglio bene. Vogliatene un po’ anche a me”.
© Craig Bell 2019
Stanza 126, una quadrupla che ospita Armando, Guido, Alberto e Luca. I primi tre sono dei veterani della casa, l’ultimo invece è arrivato da poco e la convivenza con gli altri si sta rivelando problematica. I motivi dei dissapori sono piccole cose, apparentemente insignificanti. Si sa, sono spesso le inezie quelle che fanno saltare i nervi. Nel nostro caso il motivo del contendere sono le tapparelle: Armando le vuole su e ama areare spesso la stanza, Luca invece le vuole giù e, se fosse per lui, le finestre dovrebbero restare sempre sigillate. Il vero problema è che i due coltivano un sentimento reciproco, cupo e ostile: il disprezzo. Una mattina li convoco in ufficio per cercare di risolvere le cose. Lo scontro è senza esclusione di colpi: ognuno, con le sue armi migliori, dà il peggio di se, e a nulla servono le mie minacce di espulsione nel caso non riescano a trovare un modo, seppure imperfetto, di convivere. Entrambi escono dalla stanza, scontenti e nemici più di prima. Passa qualche giorno. Sono in ufficio quando Armando entra trafelato. “Craig è successa una cosa terribile, non trovo più il mio orologio. Questa mattina me lo sono sfilato in bagno e, dopo essermi dato una rinfrescata, sono uscito scordandolo sulla mensola del lavandino. Quando vi sono rientrato, non c’era più. Sono disperato, è un orologio di grande valore che i miei figli mi hanno regalato quattro anni fa, per il mio cinquantesimo compleanno”. Cerco di rincuorarlo ma dentro di me temo il peggio... “Armando non ti preoccupare, ora lo cerchiamo, vedrai che poi tutto si risolve”. Lui se ne va sconsolato ben sapendo che solo un miracolo può salvarlo. Non passano cinque minuti che entra Guglielmo, un omone di 130 kg, per tutti Il Bimbo: nella mano, grande quanto la pala di un pizzaiolo, tiene un orologio d’oro. Lo abbraccio con gratitudine. “Grazie Guglielmo, grazie!”. Lui mi sorride. “Guarda che non l’ho trovato io, me l’ha portato quel tizio che sta sempre da solo in biblioteca, voleva metterlo nella cassetta della posta ma temendo che si potesse danneggiare l’ha consegnato a me”. “Di chi stai parlando?”. “Vieni che ti faccio vedere chi è”. E si dirige verso la sala di lettura, dove troviamo, seduto davanti al computer, Luca, il nemico di Armando. Gli mostro l’orologio, Bravo Luca, hai fatto proprio la cosa giusta, aspettatemi qui che vado a cercare il proprietario che certamente vorrà ringraziarvi. Corro su per le scale ed entro nella stanza 126, dove Armando è steso sul letto, gli occhi sbarrati fissi sul soffitto. “Buone notizie, hanno ritrovato il tuo orologio!”. Lui scatta in piedi come una molla. “Ma chi è stato? Me lo dica che voglio proprio abbracciarlo”. “Dai, vieni che te lo presento, chissà mai che non diventiate amici”. Lui mi segue felice, in un attimo siamo al piano terra ed entriamo nella libreria. Bè, in un film per girare la scena dell’incontro tra Armando e Luca ci sarebbero voluti Alec Guinness e Laurence Olivier: lo stupore tra i due è stato indescrivibile. Mai e poi mai Armando si sarebbe aspettato di essere un giorno in debito con Luca, e nemmeno nel più fosco degli incubi Luca avrebbe potuto immaginare di essere generoso e corretto con l’odiato Armando. Guglielmo ed io non abbiamo assistito all’abbraccio di Armando, ma solo a un’imbarazzata stretta di mano. Armando, sottovoce, ha farfugliato, “Grazie”, Luca basito gli ha risposto, “Non c’è di che”. È molto probabile che i due non diverranno mai amici, ma qualcosa è accaduto: inattesa e sorprendente è scesa in campo l’ironia della sorte e, per un attimo, ha preso il posto del disprezzo.
© Craig Bell 2019
Nell’ultimo mese Roberto ha sistemato la sala lettura al piano terra della casa. Della biblioteca se ne occupa Ciro, 44 anni da Mergellina. È stato naturale chiedergli se volesse prendersi cura dei libri dal momento che, nelle mie ricognizioni notturne, lo trovo spesso che legge, seduto nella penombra del corridoio del secondo piano, davanti alla porta della sua stanza. È il suo angolo di pace. Ciro legge di tutto, per passione e curiosità, spaziando da Le Città Invisibili a Le Tigri di Mompracem. L’ha sempre fatto, anche quando ha perso tutto e si è ritrovato senza tetto, a dormire di notte sull’autobus 91. Quando è arrivato da noi, non parlava con nessuno. Non perché fosse scontroso o risentito col mondo intero, ma perché aveva perso l’abitudine a stare tra la gente. Sono figlio della diplomazia del pingpong, all’epoca della guerra in Vietnam, quando l’astuto Henry Kissinger usò il gioco del tennis da tavolo per riavvicinare cinesi e americani. Un pomeriggio di gennaio quindi, mentre sono concentrato in una serrata partita con Vito – un ironico insegnante che ogni giovedì porta i suoi alunni a piantare i pomodori nell’orto, facendogli così scoprire la natura e le sue regole – ecco arrivare Ciro. Si ferma un attimo a guardarci, poi prende in mano una delle racchette. Facendolo, mima una rotazione di polso rapida e precisa: un inequivocabile gesto da consumato giocatore. Gli chiedo se abbia voglia di fare una partita, mi risponde, No grazie. Dopo un mese di corteggiamento finalmente lo convinco a giocare. Non mi ero sbagliato: Ciro è un giocatore fantastico, il migliore che io abbia mai avuto il piacere d’incontrare. Nessuno sa colpire la pallina come lui: lo fa con un’eleganza che rende tutto apparentemente facile e con un senso innato del ritmo e dello swing. Le traiettorie dei suoi colpi, sempre imprevedibili, seguono uno spartito musicale che solo lui conosce. Sono certo che è il pingpong che l’ha riportato in vita. È la bellezza del gioco! La felicità arriva sempre inaspettata e sorprendente, nei momenti e nei posti più imprevedibili. Non si può programmare o prenotare. Arriva e basta. Io di certo l’ho incontrata qualche volta sul tavolo da pingpong della Casa del Giovane, alla fine di uno scambio in apnea con il grande Ciro. Ciro da Mergellina. Lo so, suona come il nome di una pizzeria ma giuro che non è così. E mentre c’è chi gioca e si diverte, c’è chi non gioca e si sente escluso. E gli rode. Questa però è un’altra storia. Prima o poi ve la racconterò.
© Craig Bell 2019
Massimo, 42 anni, calabrese. Jerome, 30 anni, del Burkina Faso. Una sera in cucina. Tutti indaffarati ai fornelli. Dirige Dario, un sublime cuoco napoletano. Massimo, Marco e Umberto assecondano il maestro che impartisce ordini precisi. poi, tutti a mangiare di gran gusto un formidabile piatto fumante di spaghetti alla colatura di alici e granella di pistacchi, e i complimenti per Dario si sprecano. Jerome entra nel refettorio con il suo piatto di riso e carne e fa per sedersi, da solo, in un angolo della stanza quando Massimo e il resto della compagnia lo invitano al tavolo. Lui accetta e si siede con loro. Dopo un po’, mentre sto scendendo dal terzo piano dove sono andato a controllare dei contatori, sento delle voci concitate provenienti da basso: qualcuno sta litigando di brutto. Entro nel refettorio e trovo Massimo e Jerome che si stanno urlando male parole a due centimetri l’uno dall’altro: uno in calabrese, l’altro in Dyula, la lingua mandingo parlata in Burkina Faso. Ci vuole un po’ per sedare gli animi. Massimo è agitatissimo :“Direttore lei deve fare qualcosa: lui mi ha minacciato. Voglio le sue scuse, se no finisce male”. Chiedo: “Si può sapere cos’è successo?”. Massimo mi racconta d’aver invitato Jerome al tavolo offrendogli dei buonissimi spaghetti che lui ha rifiutato: “e poi si mette a mangiare il riso, con le mani! Con grande educazione e gentilezza gli chiedo: “Ma perché mangi così che mi fai schifo?”. Lui impazzisce e inizia a urlare, dicendo che non devo più parlargli perché se no... Ha capito direttore? prima si comporta come una bestia e poi mi minaccia pure!”. Guardo Jerome che è appoggiato al muro, cupo e silenzioso. Anch’io rimango in silenzio. La mattina seguente scendo presto in cucina e trovo Umberto, uno degli assistenti dello chef Dario, che sta preparando un piatto di spaghetti. “Umberto, dieta mediterranea alle otto di mattina?” Lui mi guarda divertito e risponde enigmatico: “Il mattino ha l’oro in bocca...”. Incuriosito, lo seguo nel refettorio e trovo Jerome seduto a uno dei tavoli. Umberto gli appoggia davanti il piatto di pasta fumante. poi si siede accanto e, tirando fuori di tasca un cucchiaio e una forchetta, con un filo di voce gli dice: “Guarda e impara”.
© Craig Bell 2019
Vito, 48 anni, da Trapani.
Sulla mia scrivania in ufficio, accanto al computer, c’è la riproduzione di una piccola Madonna. Vito, un muratore siciliano, che il week end, per arrotondare lo stipendio, fa il buttafuori nei locali della movida milanese, l’ha portata in dono di ritorno da un pellegrinaggio a Medjugorje. Si tira su la camicia e mi mostra una grossa cicatrice che gli attraversa tutto lo stomaco: “Guarda qua direttore: 110 punti! Sono vivo per miracolo. Quando mi sono risvegliato dall’operazione, in testa mi rimbalzava una sola parola: Medjugorje! Figurati che fino a quel giorno non avevo mai pregato in vita mia e tanto meno ero mai entrato in una chiesa. In quel momento mi era tutto chiaro: dovevo andare a Medjugorje! La mia vita non aveva più alcun senso, ed io ero ancora vivo per qualche motivo misterioso e incomprensibile che mi metteva i brividi. Da allora sono passati due anni. Ho già prenotato il pullman, dopo Pasqua ci ritorno di nuovo”.
Marcello, 37 anni, da Siracusa. Un ex della Casa del Giovane.
Marcello è tornato a Milano per un intervento chirurgico ed è ospite per alcune notti nella struttura. La sera prima della sua partenza mi offre un caffè. Sorseggiandolo davanti alla macchinetta: “Questo posto mi dà una serenità… Come dormo qui non dormo da nessun’altra parte, nemmeno nella mia casa davanti al bellissimo mare di Siracusa! Qui ho vissuto gli anni più belli della mia vita e ho conosciuto gli amici più cari.”
Me lo vedo Marcello, la sua ultima notte nella Casa del Giovane Lavoratore, nel suo letto, mentre affonda soddisfatto la testa nel cuscino: “Aaaah… Mo’ sto bene!”
© Craig Bell 2019
Luca, studente di medicina, di Vibo Valentia.
La prima volta Luca arriva alla Casa del Giovane accompagnato dalla mamma, dal padre, dai nonni e dalla fidanzata. Gli faccio vedere la struttura, spiego tutte le procedure e le regole. Lui mi cammina accanto silenzioso. “Quanti anni hai ?” gli chiedo sottovoce “Diciannove anni compiuti l’altro ieri” mi risponde, anche lui sotto voce. Tutta la famiglia lo aiuta con i bagagli, la nonna gli rifà il letto e mette lo spazzolino sulla mensola del bagno. Arriva il fatidico momento dei saluti. La mamma, rivolgendosi a me: “Grazie di tutto, mi raccomando, abbia un occhio di riguardo per mio figlio”. “Non si preoccupi signora, vedrà che andrà tutto bene”. Luca si apparta un attimo con la fidanzata. Poi tutti se ne vanno lasciandolo da solo. Scendendo le scale si voltano per un ultimo saluto. Mi avvicino al ragazzo sussurrando: ” Sorridi Luca, che stanno tutti morendo dal dispiacere”. Lui alza la mano e con uno sforzo sovrumano rimane lì, con un sorriso stampato in volto, fin che tutti spariscono dietro l’angolo della casa. Poi appoggia la fronte sulla mia spalla e scoppia in un pianto inconsolabile.
Didier, ventotto anni, di Banjul, Gambia.
Quando Didier è venuto per la prima volta a visitare la struttura mi è subito piaciuto, non fosse altro per il suo nome, lo stesso di un brillante e gentile studente d’ingegneria, proveniente dalla Mauritania, che nel lontano1970 si era sposato con mia sorella Barbara. La cerimonia era avvenuta in gran segreto, all’insaputa di tutta la famiglia e di mia madre, kennediana doc e grande sostenitrice del diritto all’uguaglianza e alla libertà di ogni uomo e donna sulla faccia di questa Terra. Questo a parole. Nella realtà delle cose quando mia madre scoprì il fatto scomunicò urbi et orbi mia sorella e la diseredò. Non era di certo un caso che Barbara avesse preso la decisione di sposarsi senza avvertirla. Quando ho raccontato la storia al giovane Didier, lui ha fatto una grande risata e mi ha detto: “Capisco tua madre!”
© Craig Bell 2019
Lunedì mattina. Sono in ufficio. Davanti a me c’è Emiliano, diciannove anni, un ragazzo cui è più facile cavare un dente di bocca che farlo parlare. Sabato notte ha lasciato entrare in casa un poco di buono e la sua fantasiosa ricostruzione dei fatti è totalmente smentita dalle telecamere dell’ingresso. Aggiungeteci pure che da un paio di mesi è anche in ritardo con il pagamento delle rette e potrete ben immaginare con che stato d’animo lo stia ad ascoltare. Accanto a lui è seduto Valerio, un signore gentile, padre di tre figli: più volte l’ha aiutato appianandone i debiti, trovandogli un lavoro e facendolo studiare. Dico a Emiliano che così non va e che deve darsi una regolata. Dev’essere il tono della mia voce, o forse la sensazione di essere stato messo all’angolo, tant’è che il ragazzo scatta in piedi vomitando insulti e improperi. Valerio lo guarda addolorato e incredulo, stenta a riconoscere in quella bestia feroce il mite e fragile Emiliano. A fatica riesco a non rispondergli a tono e dopo dieci lunghi minuti riusciamo a farlo uscire dall’ufficio. Finalmente soli, Valerio mi racconta dei tanti scatti di rabbia e delle innumerevoli bugie che il ragazzo regolarmente gli rifila. Dentro di me penso che sia troppo buono, che le cose gli siano inevitabilmente sfuggite di mano e che non comprenda a pieno la realtà di questo ragazzo che dentro di se coltiva una rabbia cupa e distruttiva. Dopo esserci salutati, per tutto il giorno mi resta a dosso un senso di frustrazione e una gran rabbia. In serata Valerio mi manda una mail: “Caro Craig, mi spiace tanto per il comportamento che ha avuto Emiliano questa mattina. A volte, nel vedere queste cose, mi sembra che tutto quello che ho cercato di fare per questo ragazzo non sia servito a niente. Ma poi penso che, se è arrivato sulla mia strada, un motivo ci sarà e ritrovo la forza per continuare. Io so che lui non è cattivo, anzi per certi versi ha un cuore grande, è solo che è troppo ferito e la rabbia gli esce nel modo sbagliato e con le persone che non centrano nulla, e se lui non impara a gestirla sarà la sua rovina. Venerdì comincerà un percorso con uno psicologo e spero lo possa aiutare”. Leggendo la mail mi sento sollevato, come se qualcuno mi avesse appena tolto un gran peso dal petto. Le parole di questo gentile signore potrebbero essere state scritte da un personaggio di Dostoevskij, il principe Myskin, un uomo così buono che la gente pensa sia un idiota, che non abbia gli strumenti e la forza per fronteggiare le difficoltà e le complicazioni della vita. Questa sua qualità invece gli dona la capacità di comprendere profondamente la realtà che gli è davanti. Valerio, come il principe, conosce la sofferenza e le miserie degli uomini e sa di certo che non sarà la bellezza a salvare il mondo, ma questo non gli toglie né la forza né il desiderio di gettarsi nella vita per fare del bene. Martedì mattina, mentre attraverso il mercato di via Strozzi, mi ritrovo all’improvviso felice. Il pensiero che il principe Myskin non sia solo una sublime invenzione letteraria, ma che possa vivere nei Valerio di questo mondo è sicuramente folle e irrazionale, ma mi fa star bene e mi da pace.
© Craig Bell 2018
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Una domenica pomeriggio afosa e immobile. Un uomo si ferma sul passo carraio della Casa del Giovane e scarica dei cocci di vetro dalla propria auto, incurante dei richiami di Claudio che da una finestra per ben quattro volte gli chiede cosa stia facendo. Alla quinta lo apostrofa con un colorito: ”Barbone!“. E lì apriti cielo. Esco dalla porta d’ingresso. Una ventina di ospiti è sulla scalinata della casa che risponde a tono al tizio il quale, scuotendo la cancellata, continua a urlare: “Aprite che vi spacco la faccia!”. Apro. Mi seguono come due angeli custodi Mario, romano de Roma, e Pino, un giovanissimo siracusano. Sorrido al tizio:“ Sono il responsabile della struttura, come posso aiutarla?”. Lui, agitatissimo, mi stringe la mano: “ Piacere Mattia Bocci, mi hanno dato del barbone, sono una persona perbene io!”. Alle mie spalle il Generale, il veterano della struttura, gli urla: “Le persone perbene non usano casa nostra come fosse una discarica!”. Il portellone del portabagagli dell’auto è aperto, per terra un mucchio di vetri rotti. “Bè signor Mattia, i vetri qui non può proprio lasciarli”. “No, no, lo so” mi risponde: “E’ che ero qui all’angolo quando ho sentito un gran botto e mi son fermato per vedere cosa fosse successo”. “Le prendo un cassonetto così può toglierli di lì.” E lui: “ Proprio quello che volevo fare ma poi sono stato preso a male parole”. In coro tutta la Casa del Giovane: ” Ma chi vuoi prendere in giro ?”. Il tizio fa per ribattere quando Mario, l’angelo custode de Roma, ha un gemito di dolore: “Ah che disastro!”. Con Pino sta osservando l’interno del portabagagli: dei grossi boccioni di vino sono andati in mille pezzi e il liquido galleggia ancora tra le schegge di vetro. Poi incrocia lo sguardo del tizio che mestamente aggiunge:” Può ben dirlo, venti litri di Albano doc…”. Mario: “ Noo… l’Albano doc no!”. Come per incanto la rabbia svanisce. Pino e Mario aiutano il tizio a ripulire l’auto. Lo fanno come se fosse un amico di vecchia data, con cura, quasi con delicatezza: ” Attento ai vetri che se no si taglia…”. Li lascio indaffarati e rientro nella Casa del Giovane. Passa una mezz’ora quando in una decina m’invadono l’ufficio. Saltano e ballano con irrefrenabile allegria. Pino tiene stretta tra le braccia una boccia da 5 litri di vino: ”L’ha regalata il tizio per scusarsi e ringraziarci dell’aiuto che gli abbiamo dato”. Dietro di lui sbuca Mario: ”E ha detto di brindare alla salute sua e di tutti noi!”. Poi scappa giù per le scale a cercare dei bicchieri. Lo seguono tutti gli altri, lasciando dietro una scia di risate.
© Craig Bell 2018
MARCO PIROTTA, il responsabile della Casa del Giovane Lavoratore.
Origini leggendarie, alcuni sostengono che provenga da un altro pianeta.
Diversi anni fa assistevo a una partita di calcio all’oratorio. Era una domenica mattinata di febbraio e il campo era sferzato da un gelido vento di tramontana. Io ero imbacuccato con tre maglioni di lana e due giacche a vento e morivo di freddo. Saltellavo accanto alla rete di cinta del campo per evitare che mi si congelassero i piedi. Insieme agli altri genitori stavo facendo il tifo per la squadra di uno dei miei figli. A un certo punto mi accorgo di un signore che mi sta accanto. Immerso com’ero nel mio rumoroso sostegno, non avevo fatto caso al suo arrivo. Il tizio sta godendosi beato la partita, in silenzio, con il sorriso in volto. In mano tiene un cabarè di paste. La cosa straordinaria è che è in maniche di camicia, un cotone leggero, quasi estivo; ha due perle di sudore sulla fronte e i peli delle braccia morbidamente adagiati sulla pelle rosea. Qualcuno ci presenta. Quando gli stringo la mano, mi pare che l’abbia appena tirata fuori da un tosta pane. “Piacere, sono Craig, il papà di Titì” e lui : “Piacere Marco, il papà del Nano.” Quella è stata la prima volta che ci siamo conosciuti.
Marco mi ricorda un mitico pilone irlandese che prima della partita, mentre canta l’inno “Ireland…Ireland…”, viene travolto dalla commozione, il volto rigato dalle copiose lacrime. E come la musica finisce di botto ritorna guerriero, gli occhi di fuoco, i denti digrignanti. Pronto per la battaglia! E Marco ci crede nella battaglia, e ancor di più crede nella provvidenza, ma non quella erroneamente intesa come rassegnazione, ma come il frutto di una lotta. Come un guerriero che dopo un duro conflitto si abbandona al meritato riposo e lascia che le cose accadano, che trovino il loro posto.
© Craig Bell 2018
KEN, 24 anni, e GODFREY, 26 anni, sono due profughi provenienti dal Mali e dalla Nigeria. Una domenica mattina qualcosa va storto. Il motivo che accende la miccia è assolutamente futile, come spesso accade in questi casi. Fatto sta che i due ragazzi passano velocemente dalle parole alle mani. Gli altri compagni di stanza rimangono fermi a guardare. Roberto ed io siamo in ufficio quando ci piomba Godfrey che si accascia su una sedia prendendosi la testa tra le mani. Il sangue gli cola tra le dita: ha due tagli tra la tempia e l’orecchio. Non fa in tempo a parlare che sentiamo una voce urlare: “Lo ammazzo, io lo ammazzo!” E’ Ken, che brandendo un coltello da pane viene giù per le scale come un pazzo: “Lo ammazzo!”. Roberto con molto coraggio gli si para davanti e a spintoni lo allontana. Il caos è totale. Samuel, scappato anche lui dalla Nigeria come Godfrey, e suo compagno di stanza, inferocito, tira calci e pugni contro il muro dell’ingresso ringhiando “He’s a fool.. he’s a fool!(lui è pazzo, è pazzo!). Chiamo i carabinieri e l’ambulanza. Poi andiamo incontro a Ken, che è rannicchiato in un angolo della sala. Piange tenendo il coltello stretto nel pugno della mano destra. Ken è bellissimo, con un sorriso radioso che può illuminare l’intera stanza. Non ora però. La faccia stravolta dalle lacrime e dallo shock è quasi irriconoscibile. Avvicinandoci ho la sensazione di avere davanti a me un bimbo di sei anni che tiene stretto in mano un coltello troppo grande, mi fa tenerezza mista a rabbia. Roberto gli s’inginocchia accanto: “Ken, per favore dammi il coltello che ti fai male”. Ken, piangendo: “Ora mi manderete via da qua”. Capisce benissimo la gravità di quello che ha fatto e sa per esperienza che niente ci terrorizza più di qualcuno che all’improvviso perde il lume della ragione. Si resta con la sensazione che la belva che abbiamo visto uscirgli dal petto resterà per sempre presente tra di noi. “Dammelo che ne parliamo” insiste Roberto, prendendogli il coltello. Niente di eroico o di virile, glielo sfila semplicemente dalla mano rattrappita nella presa. Poi abbraccia Ken e lo stringe a se. C’è grande affetto tra di loro. Guardandoli penso che potrebbero essere fratelli. E’ passato quasi un mese da quella domenica mattina e, di tutti i concitati eventi che si sono susseguiti, mi rimane ancora impresso il calore di quell’abbraccio. Forse ha a che fare con la speranza, fintanto che riusciremo ad abbracciarci penso che ci sarà sempre un po’ di luce in fondo al nostro buio.
© Craig Bell 2018.
Tonino - cinquant’anni, un forte accento meridionale - entra in ufficio chiudendosi dietro la porta : “Direttore adesso basta! Non ce la faccio più, io con quello non ci parlo più!” .“Con chi ce l’hai Antonio?” Tonino è un fiume in piena: “Ce l’ho col marocchino. Ci sono o non ci sono delle regole in questo posto? Perché quello fa come gli pare: rientra tardi la notte, accende tutte le luci. Spruzza alcol in tutta la stanza, dice per disinfettare, e la puzza mi prende alla gola. E poi russa! Lei direttore gli ha dato i cerotti per il naso ma lui dice che non servono. E così la notte non si riesce a dormire. Lui proprio non vuol capire. Convivere vuol dire vivere insieme il bene e il male, ma lui nulla, non vuol capire. Direttore, lei deve fare qualcosa perché io sono buono e caro, ma se m’incazzo, faccio un casino! (N.D.A. Tonino è alto 1,50, il marocchino invece, che di nome fa Mohamed, un pezzo d’uomo alto quasi 2 metri).
“Va bene Tonino, ti prometto che parlo con Mohamed”.
Tonino, riaprendo la porta: “Sì ma…non gli dica che sono stato io a lamentarmi”. “Non ti preoccupare Antonio, ci faccio una chiacchierata senza dirgli che ho parlato con te”. Digito Mohamed sul computer, accanto al nome appare il numero della sua stanza: la 207. Prendo l’ascensore e salgo al secondo piano. Come si aprono le porte mi viene incontro a passo di corsa proprio Mohamed : “Mohamed giusto te, ma dove vai così di fretta?” Lui, trafelato: “No, è che mi ha appena chiamato Tonino, andiamo a prenderci un caffè e se non mi sbrigo chi lo sente!” Poi, guardandomi dritto in faccia: “Aveva bisogno ?” “Tutto a posto Mohamed” gli rispondo con un sorriso: “Tutto a posto”.
© Craig Bell 2018
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La Casa del Giovane Lavoratore è un grosso palazzone di quattro piani che sorge all’angolo del quartiere ebraico, tra viale Caterina da Forlì e via Strozzi, costruita agli inizi degli anni 60 per ospitare giovani italiani con meno di trenta anni che giungevano a Milano in cerca di fortuna.
Molte cose sono cambiate da allora e l’odierna struttura ospita 120 persone, il 25% delle quali provenienti dai posti più disparati: Ghana, Burkina Faso, Brasile, Russia, Kosovo, Marocco, Iran, Afghanistan, Pakistan, Nigeria, Argentina, Gambia, Camerun, Mali.
Parliamo di studenti, pensionati, lavoratori precari, insegnanti, drag queen, architetti, profughi, stagisti, bidelli, ex carcerati. Ognuno con la propria biografia, la propria anagrafica, la propria storia.
Ora immaginatevi per un attimo che questa casa sia una nave.
Una grande nave che ogni anno al primo di Settembre molla gli ormeggi e parte per un lungo viaggio verso ovest. Verso l’ignoto. Unica certezza la data di ritorno, il 31 Luglio, quando, questa volta proveniente da est, attracca di nuovo sulle sponde di Caterina da Forlì per essere tirata in secco per l’annuale rimessaggio.
Se questa nave realmente esistesse non ho alcun dubbio che l’avrebbero chiamata Providence. E le storie che vi racconterei sarebbero inevitabilmente quelle tratte dal suo diario di bordo.
© Craig Bell 2018
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